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Una relazione tra il dire e il fare

Giuseppe Vanacore, presidente ANED

 Il “patient engagement” è un concetto che ANED ha promosso, diffuso e sostenuto sin dai primi giorni di vita dell’Associazione. Ce lo racconta Giuseppe Vanacore, Presidente ANED (Associazione Nazionale Emodializzati).

Che cosa è per lei il Patient engagement?

Senza alcuna presunzione ritengo che la missione di ANED, fin dalle origini, sia stata rivolta ad accrescere la consapevolezza del paziente.

C’è una frase della nostra fondatrice Franca Pellini che risale agli anni ’70, che afferma che “il paziente informato è colui che è capace di curarsi al meglio”. Una visione di patient engagement ad litteram. Per non parlare di uno stupendo libro di un nostro socio, Piero Fabbri, oggi scomparso, per anni dirigente dell’ANED, dal titolo: “ANED Associazione di malati organizzati”.

Da Presidente aderisco a questa visione che mette al centro la consapevolezza e la partecipazione dei pazienti e ne presidio nella pratica il fondamento, insieme agli altri dirigenti dell’ANED, sia nel rapporto con le istituzioni sia nel rapporto con i medici e le altre figure sanitarie.

Come definirebbe il livello attuale di Patient engagement delle persone con malattie renali e/o in dialisi?

Una relazione tra il dire e il fare. Con luci, ma anche tante ombre.

Tutti gli attori del sistema sono concordi nel ritenere l’engagement dei pazienti un modo più ricco e efficace di concepire il Servizio Sanitario Nazionale. La maggiore partecipazione del paziente al percorso di cura, la consapevolezza e la responsabilità sono interessi evidenti del sistema di cura, sotto molteplici aspetti.

Il paziente informato e partecipe aderisce meglio alla terapia, non pretende a tutti i costi prestazioni inappropriate. Quando aderisce in modo consapevole al percorso di cura diventa un alleato del sistema ed è più facile perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dei servizi sanitari.

Un trapiantato non “compliante”, ad esempio, potrebbe andare incontro a crisi di rigetto e nei casi più gravi al rischio di perdere l’organo trapiantato. Quando accade il danno sociale è enorme, nel caso del rene con il ritorno in dialisi, ma nel caso di altri organi è in gioco anche la vita.

Secondo lei, tutti i player del PDTA delle persone con malattie renali e/o in dialisi sono ingaggiati adeguatamente per raggiungere un buon livello di patient engagement?

Penso proprio di no. Esiste tuttora un diaframma, in particolare tra i nefrologi e i medici di medicina generale (MMG). Senza una forte integrazione tra la medicina generale del territorio e l’attività specialistica è difficile parlare di un PDTA che possa implementare tutta la propria forza di strumento diagnostico-terapeutico all’altezza della sfida attuale nella gestione delle malattie renali.  

Finora il PDTA, ove viene redatto e applicato, ha dimostrato di essere un valido strumento a livello ospedaliero, perché tende a creare una maggiore interazione tra diverse discipline specialistiche.

In base alla patologia e all’età dei pazienti, ci sono specifiche criticità nell’interazione medico-paziente/caregiver?

Sicuramente ci sono delle criticità che si manifestano su entrambi i fronti. Biografie e biologia si intrecciano fortemente. In primo luogo, i pazienti affetti da malattia renale cronica giungono allo stato dell’uremia terminale in età tendenzialmente sempre più avanzata, anche se dobbiamo sfatare il mito che il paziente malato cronico di rene sia tendenzialmente una persona anziana. Infatti – e su questo ci si concentra troppo poco – le persone in dialisi al di sotto dei 60 anni di età superano abbondantemente il 50%. Per non parlare delle persone che si sottopongono alla dialisi in uno stato acuto di malattia, che raggiungono la percentuale del 20%.

Occorre maggiormente tematizzare, nel percorso di prevenzione e cura, l’origine della malattia renale, che spesso riguarda i disturbi del metabolismo, del diabete e dell’ipertensione. Malattie a loro volta generate da errati stili di vita, mai veramente affrontati o trascurati da una medicina ancora ampiamente rivolta alla cura e non alla promozione della salute.

Mi dica quante volte ha sentito parlare di eccellenza sanitarie in una regione perché si praticano buone politiche sanitarie di prevenzione, o di un’ottima medicina sportiva o scolastica? Per non parlare della nutrizione e dell’educazione sessuale? Poco penso!

Purtroppo, spesso le persone malate di reni giungono ad una diagnosi troppo tardi, quando oramai i reni sono spacciati e non vi è alternativa che la dialisi.

L’Associazione ANED ha già attivato qualche iniziativa di patient engagement?

Come ho accennato, accrescere la consapevolezza del paziente è un obiettivo statutario dell’ANED. Le nostre guide educazionali hanno come compito preciso quello di aiutare il paziente nefropatico nel percorso di gestione della malattia renale cronica, non solo nella fase dialitica ma in tutto il percorso della malattia, fino e dopo il trapianto quando è possibile.

Più recentemente abbiamo avviato, con la direzione della rivista scientifica Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche, una rubrica di Nefrologia narrativa. Sosteniamo da alcuni anni il concorso annuale Quirino Maggiore destinato a pazienti e familiari. Centinaia di lavori di narrativa, di poesia, di fotografia e di pittura vengono presentati nella cornice straordinaria di Palazzo Vecchio a Firenze.

Il Foglio Informativo, il periodico trimestrale dell’ANED, giunto al numero 196 ospita ogni volta storie dei pazienti, le quotidiane difficoltà e le speranze anche in presenza della malattia. I pazienti si raccontano ed è importante perché il mutuo aiuto rappresenta una risorsa soprattutto per chi sa di dover convivere con la malattia per lungo, talvolta lunghissimo tempo.

Promuoviamo, infatti, la nascita di gruppi di mutuo aiuto e vi sono diverse esperienze in corso in Piemonte, in Emilia Romagna e in Toscana. Si tratta di esperienze che nascono nell’ambito di percorsi sanitari dedicati, che coinvolgono pazienti e sanitari. Una forma di autotutela che sta dando risultati sorprendenti soprattutto nella sfera relazionale.

Persone che si abbandonavano in modo passivo, tornano alla lettura, all’ascolto della musica in comune, all’organizzazione di passeggiate. Dove cresceva la passività e il declino, ritorna la voglia di vivere e di comunicare.

Quali potrebbero essere, secondo lei, le prime azioni da compiere per favorire il patient engagement della persona con malattia renale e/o in dialisi?

Consentire al paziente di raccontarsi, di vivere il più possibile con consapevolezza la malattia. Spesso chi si ammala si vergogna della propria condizione, ha paura di parlarne agli amici. Talvolta si innescano dinamiche anche nella sfera familiare che possono assumere un carattere distruttivo.

La malattia renale, come tante altre patologie, ci proietta in una dimensione di cittadinanza parallela. Non lasciamo allontanare il malato, ingaggiamo un percorso che possa dare sempre più spazio al racconto.

Con l’insufficienza renale sorgono altri problemi di salute. L’anemia renale, ad esempio, spesso è trattata in modo inadeguato. Vi è un sintomo che è quello del prurito per chi dializza che raggiunge talvolta livelli di inaudita gravità. La dialisi, in considerazione del fatto che il metabolismo è sicuramente alterato, favorisce la fragilità ossea.

In questo quadro di per sé non facile possono aiutare molto i percorsi di patient engagement. Sono ragionevolmente pessimista, perché l’attenzione al paziente oltre la sfera strettamente sanitaria fa fatica ad estendersi, ma anche ottimista perché vedo crescere la volontà di affrontare il tema sia da parte dei pazienti, sia da parte dei medici che degli altri operatori sanitari.

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