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Ribaltare la prospettiva del percorso di cura

L’engagementdel paziente non è uno strumento, ma l’obiettivo finale di un nuovo modo diconcepire i percorsi di prevenzione, assistenza e cura. Che può determinaremaggiore sostenibilità economica ed efficacia. L’opinione di Guendalina Graffigna, direttore di EngageMindsHUB – Consumer, Food & Health Research Center dipartimento di Psicologia,facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari, Ambientali dell’università Cattolicadel Sacro Cuore di Milano.

Quali sono iprincipali obiettivi che ci si propone di raggiungere con l’engagement del paziente?

L’obiettivo primarioè lacorresponsabilizzazione del paziente e dell’utenza del Sistema Sanitario nel suo percorso di cura e prevenzione.Oggi di punta al patient engagementin diversi setting. Dal self management – un paziente piùingaggiato è più motivato e aderente alla terapia – alla ricerca farmacologica.In questo caso il paziente è chiamato a dare degli input ad esempio nelladefinizione dei trial clinici. L’engagement si estende poi alla partecipazione alla definizione delle politichesanitarie. Il paziente deve trasformarsi da utente finale a coautore delpercorso sanitario. In ultima analisi ciò porta a un beneficio collettivo moltorilevante: rendere la filiera sanitaria più efficace e sostenibile.

Quali sonole strategie che si dimostrano  più efficaci per favorire l’engagement?

Per prima cosa bisogna capire quali sono i livellidi patient engagement da raggiungeree i motivi per cui il paziente non è partecipativo. Qualsiasi strategia deve partire dalla comprensione accurata eprofonda dei fattori sociali e psicologici che ostacolano questa partecipazione.Nella mia esperienza di ricerca ho visto che, indipendentemente dal caricobiologico di malattia, il fattore motivazionale psicologico è il più rilevante.Una volta identificati gli ostacoli, si può costruire un percorso dicomunicazione che favorisce l’engagement.

Parliamo diruoli: come deve agire il medico?

Più che il medico, l’equipe terapeutica ha unruolo fondamentale nel processo di engagementche deve essere visto come un gioco disquadra in cui il paziente non deve restare in panchina, ma avere i propridiritti e doveri nell’ambito di una partita che deve vincere insieme agli altrigiocatori della propria squadra, seguendo le regole del gioco.

Conseguentemente, l’operatore sanitario deve essereresponsabilizzato rispetto al cambio di paradigma che vede il malato non piùcome utente ma come coautore del percorso di cura.

Naturalmente il malato deve riconoscerel’autorevolezza del personale sanitario, perché engagement non deve essere inteso come un inno all’autocura.

E il caregiver?

Si tratta di una figura fondamentale soprattuttonei casi in cui il malato sia in condizioni di inabilità, come nel caso dialcuni grandi anziani o di persone con gravi deficit cognitivi o, ancora, nelcaso del paziente pediatrico. In questo caso è meglio parlare di caregiver engagement, giacché ilpaziente risulta per diversi motivi una parte poco attiva.

Oggi il caregiver familiare è uno deiprotagonisti del sistema sanitario integrato: ricorda gli appuntamenti,tiene insieme le informazioni cliniche del paziente e lo porta fisicamente agliappuntamento per la prevenzione e la cura. Considerando questo ruolo enormesulle spalle dei familiari, che naturalmente devono poter continuare a condurreanche la propria vita lavorativa e personale, sarebbe opportuno pensare apolitiche che lo possano supportare concretamente, ma anche a livello diinformazione sulle risorse a cui può fare riferimento nel processo di assistenzaal malato.

Qualistrumenti si rivelano più utili per ottenere la partecipazione attiva delpaziente?

Bisognerebbe cominciare a coinvolgere attivamente le associazioni di pazienti e i cosiddetti“pazienti esperti” nei tavoli di discussione regionali e nazionali per dareinput importanti per indirizzare il decisore politico. Ciò avviene ancora amacchia di leopardo. Lo stesso discorso vale a livello ospedaliero.

Dal punto di vista psicologico ed emotivo, sonomolto importanti le attività dicounselling motivazionale.

Anche letecnologie digitali possono dare una mano in qualità di strumenti abilitantiper il paziente. Mi riferisco ai devicedi automonitoraggio e a quelli che favoriscono la comunicazione con il medico econ il team clinico che segue il malato.

C’è però il rischio che l’innovazione tecnologicasia fine a se stessa e che quindi si punti molto alla cifra innovativa dellatecnologia senza tenere conto della ricaduta concreta in termini di cambiamentodell’aderenza terapeutica e clinica.

Questo“scollamento” potrebbe derivare dal fatto che le tecnologie digitali sonoprogettate in modo avulso dalle reali esigenze del paziente?

Il patientengagement è una terminologia molto di moda. In realtà spesso non siconosce esattamente dove e come il paziente manchi di questa partecipazione. Inaltri termini, si ascolta troppo poco il paziente, quindi lo si comprende poco.

Il mio gruppo di ricerca sta sviluppandosperimentazioni che, partendo da strumenti di intelligence sulla psicologia delpaziente e sui suoi livelli di engagement,possano dare indicazioni per sviluppare tecnologie sempre più personalizzateper realizzare l’engagement stesso.

Infine,volendo sintetizzare: quali sono luci, ombre e prospettive del patient engagement?

Il principale punto di forza del patient engagement è il fatto che se si riesce a creare una sinergia maggioretra l’utenza del Sistema Sanitario e il suo provider senza dubbio si possono raggiungere ottimi livelli disostenibilità economica, di efficacia e anche una maggiore soddisfazione ditutti.

Ma attenzione: non dobbiamo rischiare chel’etichetta “patient engagement”serva per chiamare con un nome nuovo attività vecchie. Tutto al contrario, comeabbiamo visto il patient engagement porta con sé la necessità di rivoluzionarel’intera prospettiva del processo di prevenzione e di cura

Bisognerebbe iniziare a diffondere la cultura del patient engagement tra i cittadini, apartire dalla scuola primaria, così come tra gli operatori sanitari che giàoperano nelle strutture di cura e tra coloro che si stanno formando nelleuniversità.

La prospettiva che vedo comprende, quindi, lanecessità di costruire una infrastruttura di policy e organizzativa che permetta davvero un cambiamento a tuttii livelli.

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